«Viviamo in un momento storico dove l’individualismo si fonde con l’autoconservazione della propria identità.» Intervista allo scrittore indie Jamie Alain Miller.

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Intervista di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Nella foto: Jamie Alain Miller

Il suo romanzo Chased – Braccato, di cui vi ha parlato ieri, è uno dei romanzi più cruenti che abbia letto negli ultimi tempi. Un romanzo indie come il suo autore e come la sua scelta di pubblicare in maniera indipendente, pur di non modificare la sua penna per le esigenze delle case editrici. Jamie Alain Miller sa il fatto suo e sa cosa vuole cosa arrivi delle sue opere arrivi a chi le scova. Nell’intervista che segue questa sua indipendenza, artistica e intellettuale, viene maggiormente fuori attraverso risposte precise e taglienti…
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D.Il romanzo gira intorno alla sparatoria che si consuma all’interno di una scuola superiore di Beverli Hills. Perché hai scelto questo come tema principale?
R. È stata una scelta quasi obbligata, perché le sparatorie nei licei sono un fatto di cronaca “tristemente noto” nei tabloid americani e per fortuna sconosciuti in Italia. L’idea della sparatoria mi serviva come catalizzatore per creare un’urgenza nei conflitti dei personaggi che necessitavano di una spinta. E la sopravvivenza è la spinta più potente di tutte.

D. La sparatoria, come dicevo, fa cornice alle storie dei personaggi che ve ne si trovano coinvolti; fra questi c’è Elliott, uno dei protagonisti assoluti a mio avviso. Un ragazzo gay, vittima di bullismo e che sogna il primo bacio. Come nasce questo personaggio e quanto di reale c’è in lui?
R. È nato per essere la vittima che pur di essere notato, desiderato, amato è disposto a diventare preda, purché qualcuno lo consideri un trofeo. È un ragazzo che conserva quel romanticismo infantile tipico dei sognatori ma che ha capito come funziona il gioco e soprattutto il gioco del sesso e del potere.
Non so quanto ci sia di realistico in lui, non mi ispiro a persone esistenti quando creo i personaggi, li vedo quasi come iperboli verosimili di alcuni tratti della mia personalità, è come se fossero tutti una mia derivazione, figli degeneri.

D. Rod, il killer, invece è uno sbandato sciupa femmine, che improvvisamente per via di un’attrazione particolare, vede le sue certezze crollare e questo lo porta a sparare all’impazzata nella scuola. Anche di lui ci dici com’è nata l’idea e se c’è qualche evento che ti ha ispirato?
R. Volevo creare una storia dietro al mostro. Non giustificarlo, ci tengo a sottolinearlo, ma stratificare la sua personalità, creare un sistema di causa e conseguenza nelle sue azioni folli, figlie di un’emotività repressa e deviata e dei suoi traumi infantili. Rod è un uomo che si crogiola in un costrutto di certezze che lui crede solide. I suoi dogmi (il sesso senza impegno, la vita dissoluta, il rifiuto dei legami) sono in realtà fatti di carta, che bruciano non appena una figura innocente come quella di Elliott irrompe nella sua sfera emotiva.
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Nella foto: Jamie Alain Miller

D. Quello che mi ha colpito nella storia è stato il vedere come i diversi personaggi che ruotano intorno a Rod ed Elliott, e loro stessi, reagiscono di fronte in una situazione simile. C’è chi trova il coraggio di accettare i propri sentimenti e chi, per paura di morire, si accontenta di ciò che ha a “portata di mano” pur di realizzare il proprio sogno.  Bisogna arrivare a temere di perdere la vita per riuscire a seguire le proprie “aspirazioni”?
R. Bisogna arrivare a non avere più alternative. E con questo non intendo per forza “avere la morte alle calcagna”, sarebbe troppo facile, e definitivo. Intendo che si arriva a un punto in cui più i segni meno delle paure, sommate, danno per forza un risultato positivo, perché vince quella più impellente, la minaccia che incombe fa soccombere le altre. È sempre una questione di sopravvivenza. Davanti a questa forza devastante della natura non possiamo che scegliere quello a cui teniamo davvero, perché potrebbe essere l’ultima occasione per averlo. La scena di Elliott e Josh è molto controversa, in diversi lettori mi hanno detto che è inverosimile che un ragazzo, in quella situazione, si metta a pensare a quello.
Ma nessuno può dire cosa farebbe un ragazzo di fronte alla fine della sua giovane vita. I rimpianti e i sogni si ammassano all’uscita e si va in confusione. Io non ho pianificato una scena del genere con la costrizione, nella mente di Josh, mi è sembrato naturale.

D. Nel tuo romanzo, ma anche nella società che ci circonda, l’omosessualità è ancora difficile da accettare. Credi che questa avversione potrà mai cessare, oppure, data anche l’ondata destroide delle ultime elezioni, è destinata a ferire ancora molta gente?
R. Non credo ci si abituerà mai alla diversità, questo è il problema. Viviamo in un momento storico dove l’individualismo si fonde con l’autoconservazione della propria identità. Oggi tutto è hackerabile, la nostra identità sul web è vulnerabile ed esposta, siamo presenti sempre, ovunque e comunque. In un mare magnum di questo tipo si teme che la diversità possa rosicchiare il nostro spazio, sovrapporsi, rubarci la scena. Non credo sia una questione di accettazione ma di invidia sociale. L’omofobia, come il razzismo, è radicata nelle persone che, nonostante la vastità del globale, temono ancora che la diversità possa invadere o consumare il suo spazio vitale.

D. Il tuo romanzo si sofferma sul delle sparatorie nei licei americani, che mai come adesso, come tu stesso ha detto poco sopra, è attuale per via della cronaca e del “rimedio” che il presidente degli Stati Uniti vorrebbe adottare. Armare gli insegnati, come sostiene Trump, è la soluzione migliore per ovviare al problema o le soluzioni dovrebbero essere altre?
R. Ovviamente no. Non è accettabile la giustizia fai da te, come è palese che la liberalizzazione del mercato delle armi non ha mai giovato al sistema della sicurezza in America, portando ad aberrazioni come, appunto, le sparatorie nei licei. La soluzione sarebbe invece quella di vietare le armi, per tutti, creare una sorta di neo proibizionismo, razionalizzare l’uso di questi strumenti e limitarne la diffusione come in altri paesi. Sono le istituzioni a dover proteggere i civili, non possiamo essere un esercito di ChuckNorris. Di ChuckNorris ce n’è uno solo.
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D. Per concludere, nella nostra prima email di contato mi hai detto: «Ho scelto una storia scomoda, sporca e di sentimenti difficili perché penso che il self sia la nuova frontiera per gli scrittori che vogliono essere se stessi, rischiare, mettersi alla prova senza dover necessariamente incasellarsi negli stretti canoni delle case editrici classiche» e tu si sei davvero messo alla prova. Pentito?
R. No, anzi. Ed è una corrente che continuerò a seguire. Per anni ho tenuto nel cassetto romanzi scomodi, idee che rigettavo perché “tanto nessuno lo pubblicherà mai”. Il mondo dell’editoria sta cambiando e sono felice di poter essere me stesso nella scrittura, come è giusto che sia. Le etichette lasciamole ai supermercati.

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