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Un'altrà metà - Streusa racconta l'amore che va oltre le etichette

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A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani



SINOSSI DELL'OPERA

Crescere è un viaggio in cui bisogna superare le proprie debolezze. Lo sa bene Filippo, che fatica ad affrontare l’età adulta. Per caso gli capita di conoscere una ragazza diversa dalle solite, dura, sfuggente; si odiano, eppure si avvicinano. Ma quando Gabriella sparisce improvvisamente dalla sua vita, non riesce a darsi una spiegazione. Solo anni dopo la rincontrerà e potrà scoprire il suo segreto, che metterà in discussione la sua scala di valori. Fare pace con se stessi non sarà un’impresa facile…

Già dalla premessa si intuisce che Un’altra metà, il romanzo della debuttante Streusa, pubblicato in maniera indipendente (prezzo ebook: 2, 99 Euro – prezzo cartaceo: 10, 99 Euro), narra una storia più articolata di quanto appaia. Filippo, infatti, da giovane spensierato interessato solo a giocare a calcetto e a collezionare più avventure sessuali possibili con belle e avvenenti ragazze, diventa un uomo capace di guardarsi dentro e andare oltre alle convenzioni sociali. Merito di Gabriella, una ragazza che nasconde un segreto, quello di essere nata in un corpo maschile.
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L'AMORE VA OLTRE LE ETICHETTE

Il pregio di questo romanzo è l'aver saputo raccontare una storia, apparentemente complicata, con estrema naturalità. Vero, ci sono i dubbi iniziali di Filippo, ma questi vengono raccontati come un qualsiasi tentennamento che può capitare all’inizio di una relazione. La scrittura, fatta di slang giovanili e fluidità sintattica, permette al lettore di respirare un senso di piacevole contemporaneità.

Un’altra metà è un romanzo attuale, che non ha la pretesa di insegnare niente a nessuno, ma si limita a raccontare ciò che accade o può accadere. L’amore, infatti, quando fa breccia nei nostri cuori, va oltre le etichette e le costrizioni sociali.
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Pertanto, se vi va di leggere una storia contemporanea, che racconta un altro lato delle relazioni affettive, il romanzo di Streusa fa al caso vostro.

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INTERVISTA: « Ciascuno ha diritto di essere se stesso» Cinzia Nazzareno parla del suo nuovo romanzo Lo scarabocchio.

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A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Dopo avervi parlato del suo nuovo nuovo romanzo Lo scarabocchio (qui la recensione), oggi su Il mondo espanso dei romanzi gay ospitiamo Cinzia Nazzareno, con un'intervista da leggere fino alla fine.

D. Lo scarabocchio è un romanzo con cui viene raccontata la difficoltà di un ragazzo di vivere la propria alterità in un’Italia ancora bigotta e chiusa a temi come omosessualità e transessualità. Come nasce l’idea?
R. Lo Scarabocchio nasce dal bisogno di parlare di temi scabrosi come appunto la transessualità con lo scopo di smantellare- almeno di provare a farlo- i pregiudizi che ruotano attorno a chi è sessualmente diverso e cerca disperatamente di affermare la propria identità di genere senza doversi nascondere o vergognarsi di essere diventato ciò che da sempre sente di essere, restituendo alla capricciosa natura, prima, e all’umanità, dopo, il proprio intimo sentire. Ciascuno ha diritto di essere se stesso al di là di ogni umana incomprensione.
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D. A colpirmi sin da subito è stata la scelta del titolo: Lo scarabocchio. Cosa ti ha spinto a sceglierlo?
R. La scelta del titolo di un libro è sempre un momento delicato poiché spesso è il vero incipit del romanzo o comunque l’indicatore della trama. Riuscire a trovarne uno azzeccato che illumini il lettore e lo conduca verso quella storia e non su un'altra è fondamentale. Lo scarabocchio è l’epiteto con cui  Gianni/Genny  verrà apostrofato in un paio di tristi occasioni da persone che lui ama immensamente e dalle quali non si aspetterebbe mai di essere offeso. Ma spesso la realtà ferisce e delude le nostre più delicate aspettative…

D. Passiamo alla storia. Mi è piaciuta l’idea di partenza con cui la storia prende forma. Albina è una laureanda che per realizzare la tesi si fa raccontare un episodio dalla nonna. Da qui il passato e il presente si fondono e il lettore può avere due visioni sul modo di pensare della gente. Con quale delle due epoche hai avuto più problemi a relazionarti?
R. Scrivere questo romanzo non è stato affatto facile. Inizialmente avevo pensato a un incipit diverso, più banale e scontato forse, ma rileggendolo non riuscivo a convincermene. Se non provo le scosse, il pathos e non mi emoziono e piango, non è il romanzo giusto e so che nessuno lo leggerebbe. E come una sarta, ho provato a imbastire un nuovo modello, più confacente alla storia. Mi sono sforzata di andare indietro nel tempo frugando nei miei sbiaditi ricordi di bambina, usando i racconti quasi criptati di donne del passato che parlando “sottovoce tra di loro” si raccontavano la vita e i suoi misteri e poi come la macchina del tempo, accelerando sono ritornata nel presente, provando a creare un parallelismo tra due epoche lontane nel tempo, ma ancora vicine nella mentalità. Cosa sia stato più difficile sinceramente non so perché avevo alcuni alleati pronti a soccorrermi tutte le volte che pensavo di distruggere il file del romanzo: racconti/ricordi, fantasia, desideri e speranze.

D. La storia è ambientata in un’ipotetica provincia siciliana. In molti sospettano che ancora oggi scoprirsi omosessuali e transessuali nell’isola sia più difficile rispetto ad altre parti del paese. Pure tu di questo avviso?
R. La Sicilia, straordinaria terra dei Viceré e delle bellezze naturali e architettoniche, nonché culinarie, che tutto il mondo ci invidia, è, ahimè, terra che ha coltivato, inconsapevolmente forse, pregiudizi e superstizioni in quantità ancora oggi difficili da debellare.

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D. Un personaggio interessante a mio avviso è nonna Camilla, una donna forte e debole allo stesso tempo, che ha guardato impotente i soprusi verso Gianni/Genny, con la voglia, prima o poi, di poterlo riscattare agli occhi della società. Ti sei ispirata alla tua oppure è un personaggio suggerito dalla tua fantasia?
R. Da piccola ero una bambina curiosa e vivace e, come forse tutti i nipoti del mondo, ho trascorso molto tempo con la mia cara nonna, che mi ha raccontato e insegnato gran parte delle cose che so, poiché la sommergevo di domande alle quali molto spesso rispondeva e qualche volta schivava con la grazia sorniona che la caratterizzava.

D. Per concludere, nel romanzo dici che il compito del sociologo sia quello di analizzare i fatti e raccontarli al fine di cambiare le cose. Io credo che, in qualche modo, anche gli scrittori svolgano lo stesso ruolo. Per questo ti voglio chiedere: cosa speri di lasciare a chi leggerà il tuo romanzo?
R. Lo scrittore spesso è un individuo con una spiccata sensibilità che focalizza aspetti della vita che per altri possono essere irrilevanti e poco necessari. Ho scritto Lo scarabocchio mettendoci dentro tutta l’umanità di cui dispongo; ecco è questo quello che vorrei che gli altri cogliessero dalla lettura del romanzo, un “Nuovo Umanesimo”, capace di portare tutti verso la tolleranza e l’accettazione. Nessuno è perfetto e tutti siamo diversi, per fortuna. Per fortuna ripeto!

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Lo scarabocchio - Il romanzo di Cinzia Nazzareno dove passato e presente si fondono per fare giustizia


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A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Olmo è un piccolo borgo della Sicilia degli anni ’70. È qui che vive la famiglia, apparentemente felice, di Filippo Aletta. Soltanto l’ultimogenito, lo strano e tormentato Gianni detto “Genny”, desta alcune preoccupazioni.

Quando una notte, nel fienile, il padre lo scorge in atteggiamenti equivoci con lo sgorbio del villaggio, prende coscienza con amarezza della sua vera identità sessuale di donna intrappolata nel corpo di un ragazzo e, in preda a una crisi di nervi, lo caccia da casa e gli intima l’immediato trasferimento a Roma. È lì che l’ingenuo Genny spera di incontrare il vero amore…

Con una struttura a cornice che apre, pervade e chiude il racconto e che ne rivelerà il messaggio più profondo, la storia è il crudele affresco di una società cieca e bigotta, pervasa da infiniti pregiudizi nei confronti della “diversità”, e prosegue con travolgenti colpi di scena, fino a giungere a uno struggente finale mozzafiato.

Su queste premesse si muove il romanzo Lo scarabocchio di Cinzia Nazzareno (Bonfirraro Editore, 2017. Prezzo cartaceo 16,90 Euro).

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La Nazzareno, alla sua seconda esperienza editoriale, consegna una storia dal sapore aspro, come i limoni della Sicilia, dove si svolge la storia.  Partendo da un presente volto alla ricostruzione di un passato doloroso, tenuto taciuto per decenni, Lo scarabocchio affronta la difficoltà dell’identità di genere nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso.  Albina, infatti, per realizzare la sua tesi in sociologia chiede a nonna Camilla di raccontarle un episodio che ha scosso la società diversi anni prima. Parola dopo parola l’anziana donna consegna alla nipote l’amara esistenza di Gianni/Genny. Il difficile rapporto con un padre fimminaru e con una provincia buona sola a giudicare e a spettegolare, sono gli elementi contro cui Gianni/Genny e la sua identità sessuale devono fare i conti.

La bellezza del romanzo sta proprio nel doppio scenario in cui si muove: da un lato una ragazza dei giorni nostri alle prese con i suoi sogni professionali, dall’altro un giovane di quasi cinquant’anni fa alle prese con il suo desiderio di affermare la propria identità sessuale. Due epoche, due mondi se vogliamo, che la Nazzareno racconta con scrupolosa meticolosità, che risulta essere la vera forza del romanzo.

Vincente è pure l’utilizzo del dialetto, per dare più spessore a certi personaggi. Nonna Camilla non sarebbe la stessa se non si lamentasse in siciliano.  A dire il vero l’isola diventa un’altra sorta di protagonista del romanzo fra panoramiche mozzafiato e prelibatezze culinari.
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Tuttavia non posso non esprimere una punta di disapprovazione per alcune scelte stilistiche. Il romanzo, a mio avviso, perde il suo potenziale, quando la Nazzareno utilizza descrizioni da romanzo rosa, che cozzano con i toni e il messaggio seri di cui Lo scarabocchio si vuole fare portavoce. Questo, però, non impedisce di apprezzare il romanzo appieno.

Pertanto se avete voglia di una storia che unisca passato e presente, che abbia pathos e dramma e che arrivi al cuore, Lo scarabocchio di Cinzia Nazzareno fa al caso vostro. 

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“La mano sinistra di Calvus” - Intrighi, sospetti e combattimenti tra gladiatori in prossimità degli ultimi giorni di Pompei nel libro di Ann Gallagher

A cura di Lilia Stecchi
Grafica di Giovanni Trapani

L'ex gladiatore Saevius è certo che la Fortuna gli stia sorridendo quando un politico pompeiano lo compra per farne la sua guardia del corpo. Almeno finché il suo nuovo padrone, Calvus Laurea, ordina a Saevius di scoprire con che gladiatore sua moglie stia avendo una sordida relazione. Per riuscirci, Saevius deve tornare nell'arena, ad allenarsi insieme agli uomini che sta spiando. Peggio ancora, adesso è agli ordini di Drusus, un lanista notoriamente crudele... eppure stranamente intrigante.
Ma l'inganno di Saevius è l'ultima delle sue preoccupazioni. La relazione nasconde ben più di una donna che umilia il suo prominente marito, e Saevius si ritrova a far parte di un gioco pericoloso fra uomini altrettanto pericolosi. Non è l'unico gladiatore intenzionato a rivelare le trasgressioni della signora Verina, e suo marito vuole ben più del nome del colpevole.
Quando Saevius scopre la verità sulla relazione, non ha altra scelta che tradire uno dei suoi padroni: uno dei quali ha imparato a temere, e uno dei quali ha imparato a rispettare. Ed entrambi potrebbero farlo uccidere senza alcuna ripercussione.
Per la prima volta nella sua vita, il posto più pericoloso per questo gladiatore non è nell'arena.

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Quella appena letta è l'intrigante trama de “La mano sinistra di Calvus” (Traduzione di Cornelia Grey - Self Publishing. Prezzo: 4,54 Euro), dove Ann Gallagher, o se preferite L.A. Witt, ci porta indietro nel tempo, ai fasti di Pompei poco tempo prima che l'eruzione del Vesuvio la distruggesse.

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La storia ci è narrata in prima persona dal fiero Saevius, molto ricercato nei suoi trascorsi da gladiatore perché difficile da battere e mancino, che si crogiola nella sua nuova condizione di guardia del corpo di un ricco politico, avvicinandolo sempre più all'agognata libertà. Ma Calvus, il suo nuovo padrone, è di tutt'altro avviso e gli affiderà un compito particolare che non è solo pericoloso, ma che lo porterà di nuovo a vestire i panni del gladiatore. 
Trasferitosi nel ludus di Pompei, Saevius dovrà vedersela, come ultimo arrivato, con le rappresaglie degli altri gladiatori che lo credono una spia, ma allo stesso tempo farà la conoscenza dello spietato lanista Drusus, che a sua volta sembra non fidarsi di lui.
Drusus non è eccessivamente alto, ha muscoli formati, ma non è troppo robusto e sembra poco più di un ragazzo, eppure emana una forza e un timore reverenziale in chi lo incontra da far tremare le gambe. È questo ciò che prova Saevius quando vede per la prima volta quegli occhi magnetici, e il passo a desiderare di più, poterlo baciare e poter toccare la sua pelle, è breve. Saevius però ha un lavoro da portare a termine, un lavoro che lo porterà a fare delle scelte importanti e a cambiare la sua vita. 
Ora tutti gli ingranaggi sono minuziosamente messi in moto e davvero, mai come questa volta, niente è come potrebbe sembrare.

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Ho avuto il piacere di conoscere L.A.Witt Gallagher all'ultimo Meeting Romance M/M, che si è svolto a fine maggio a pochi passi da Verona, rimanendo colpita dalle dichiarazioni fatte nei suoi interventi: per la quantità di ore che dedica alla scrittura e di quanto riesce a produrre. Credendo che per scrittura non si intenda solo mettersi lì e concretizzare la propria fantasia, alle sue parole mi son chiesta come fosse possibile scrivere così tanto e farlo, come fa lei, in maniera tanto eccelsa e soddisfacente. Un buon romanzo, specie se ambientato in un determinato periodo storico, va supportato con una minuziosa ricerca e una dettagliata documentazione e “La mano sinistra di Calvus” ne è l'esempio lampante.
È davvero interessante come, durante la lettura, si abbia la netta sensazione di muoversi tra sontuose domus patrizie o rinomati bordelli, per poi respirare lo sforzo e il sudore di un ludus, dove i gladiatori vivono e si allenano tra uno spettacolo e l'altro nell'arena. Che sia un edificio o un ornamento, un'armatura o un'acconciatura è tutto descritto nei minimi dettagli, come se l'autrice avesse avuto l'eccezionale privilegio di fotografare l'ambiente e i personaggi del periodo che descrive.
Nel mio parlarvi del romanzo, mai come questa volta non me la sono sentita di scendere troppo nei particolari, per non rovinare la sorpresa a chi deciderà di intraprendere questa lettura, ma, credetemi, l'autrice come sempre riuscirà a sorprendervi piacevolmente.
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«Sono una persona fondamentalmente insicura che cerca di sfidare la vita, facendo cose belle.» Vincenzo Restivo si racconta e parla del suo nuovo romanzo ‘Storia di Lou’.

A cura di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Se ieri vi ho parlato del suo nuovo romanzo ‘Storia di Lou’, oggi vi propongo l’intervista che Vincenzo Restivo ha rilasciato a Il mondo espanso dei romanzi gay.
Una chiacchierata che mi ha dato modo di scoprire qualcosa in più sul romanzo e che ha fatto accrescere maggiormente la  mia stima nei suoi confrontiVincenzo Restivo si racconta, con assoluta schiettezza, parlando di ciò che lo ha spinto a mettere la sua esperienza a disposizione degli altri, sia attraverso la sua attività di scrittore che attraverso quella di attivista LGBT, e lo ha reso «una persona fondamentalmente insicura»  che «cerca di sfidare la vita, facendo cose belle.»

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D. ‘Storia di Lou’ è incentrato sul personaggio di Lou, una ragazza a disagio nel suo corpo maschile. Com’è stato calarsi nei panni di una persona transessuale?
R. Non è stato complesso. All’arcigay di Caserta  dove sono anche consigliere, quella trans è una realtà che respiro. È il mio quotidiano e sarebbe più strano se non ci fosse. Grande è stato l’aiuto, volontario e involontario, che mi è stato dato. Del resto basta viverle le cose e sulla carta, poi, diventa tutto più semplice.

D. Non nascondiamocelo, le persone transessuali sono in qualche modo più discriminate delle persone omosessuali. Secondo te perché il pregiudizio su di loro non riesce a diminuire? Colpa dei media, colpa loro o colpa della gente che non vuole accettare altre possibili varianti della sessualità?
R. Viviamo in una realtà eteronormativa e chi squilibra questa linearità di facciata è un elemento da eliminare, come un brufolo antiestetico che vorresti schiacciare. E il paragone rende proprio l’idea. E mi riferisco soprattutto a quel tradizionalismo monocromatico che non lascia spazio alle sfumature. I media, d’altro canto, per ignoranza e impreparazione fanno poca informazione e quella poca che fanno, il più delle volte è errata. Sbagliare (volontariamente), un pronome in un articolo di giornale,  a esempio, è già fare cattiva informazione. Se  una ragazza M to F ( Male to Female) me l’appelli al maschile, c’è di base qualcosa che non va. Lessi una notizia tempo fa, parlava di una transessuale morta ammazzata. L’articolo riportava il seguente titolo: UOMO AMMAZZATO A COLTELLATE. A seguire il suo nome anagrafico e l’immagine di una ragazza che di maschile non aveva nulla. Ciò ti fa capire che c’è, purtroppo, ancora tanta confusione e poca propensione alla comprensione.

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D. Nella storia hai affrontato il disagio dell’anima e del corpo anche attraverso gli altri personaggi. C’è chi soffre di depressione, chi è affetto da autismo e chi, invece, è nato paraplegico. Sbaglio se ipotizzo che hai voluto analizzare i vari modi con cui un’anima non è in pace con se stessa?
R. Non sbagli. Lo scopo era proprio questo. Tant’è vero che ‘Storia di Lou’ si apre proprio con un suicidio,  conseguenza del male dell’anima per eccellenza. Tuttavia la mia intenzione era anche quella di riuscire, attraverso soprattutto un linguaggio senza filtri, a esorcizzarlo un po’ questo male, ad affrontarlo a viso scoperto, con la caparbietà tipica di chi è stato segnato dal dolore.

D. Sebbene ‘Storia di Lou’ rientri nel genere di formazione, a differenza dei tuoi romanzi precedenti, il linguaggio usato è più esplicito. Com’è stato cimentarti con questa nuova veste?
R. Come dicevo in precedenza, il linguaggio è volutamente esplicito, rozzo, spesso blasfemo. Ma era inevitabile. Il dolore si affronta anche in questo modo, altrimenti ti annienta e vince lui. La lingua è fondamentale in questa guerra, è un’ottima arma. Da piccolo mi dicevano spesso: “impara a sciogliere la lingua, “caccia a’ lenga” come si dice dalle mie parti. La lingua è vero che ti salva.

D. Ci sono due aspetti, in particolare, della storia che mi hanno colpito. Il primo è la difficoltà di Lou, ma anche di Even, di trovare qualcuno che li possa amare per ciò che sono. Anche qui ci ho visto un tuo tentativo di mettere in risalto l’affettività di chi ha una qualche diversità fisica, sbaglio?
R. L’intenzionalità era quella di raccontare il dolore e la sua sconfitta attraverso il corpo e i tormenti che esso stesso conserva: quello mutilato di Lou,  le gambe senza vita di Even, così come Eli con le mani martoriate in cerca di insetti nel terreno e l’autismo che non le permette di connettersi col mondo. Ma forse è un bene, quando il mondo di fuori è terribile, quando tua madre muore suicida impiccata al lampadario della sua stanza da letto. Dico: in casi come questi forse è un bene non riuscire a connettersi con la realtà di fuori.

D. L’altro è l’incapacità di una persona di accettare la morte di chi si ama, annientandosi pur di non affrontare la realtà. Secondo te, cosa scatta nella mente di una persona in certi momenti?
R. Non credo si tratti dell’incapacità di accettazione della perdita, mi riferisco più che altro al rifiuto della realtà, alla negazione di quel distacco necessario per il raggiungimento di una consapevolezza più tangibile. A Lou le hanno sempre nascosto delle cose, segreti che sua madre Carla stessa  si è portata fin dentro la tomba e ora lei è da sola ad affrontare sia il distacco improvviso, sia il fantasma di un ricordo fin troppo mitizzato.
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D. Nel romanzo scrivi: “Sono solo l’immagine del sogno che ho sempre di me. Io continuo a essere così, il sogno che voglio. Ma sotto i vestiti, resto sempre la realtà al risveglio.» A parlare è Lou, ma io voglio girare questa parole a te: qual è l’ immagine che hai di te e qual è la realtà che sei?
R. Non ho molta autostima. E questo si evince quando parlo in pubblico e blatero cose sconnesse. Un’amica mi diceva che la seconda paura più grande dell’uomo, dopo quella di morire, è proprio quella di parlare in pubblico. Ecco, quando penso a me e all’immagine che ho di me, mi figuro su un podio a blaterare cose sconnesse mentre guardo la faccia interrogativa dei presenti che stanno lì lì per alzare i tacchi e andare via. E per un autore non è il massimo. Credo, per questo, che l’immagine che ho di me sia alquanto coerente con la realtà che sono.

D. Noi ci conosciamo soltanto tramite i social e gli incontri su questo blog, eppure la tua storia, la tua voglia di trasformare il bullismo subito da giovane in qualcosa di utile per aiutare i più giovani, ai miei occhi, ti rende una persona degna di ammirazione e di rispetto. Proprio per questo non mi spiego il perché di questa poco autostima. Da cosa nasce questa percezione?
R. Mi sono più spesso psicanalizzato, lo giuro, ma senza risultati rilevanti. Credo dipenda dall’infanzia, senza dubbio. Il bullismo subito, per quanto non abbia mai sfiorato la violenza fisica, mi ha segnato nel bene e nel male. Gli insulti, le derisioni e l’isolamento che mi imponevano i miei compagni, da ragazzino, sono stati il risultato di quello che sono oggi: una persona fondamentalmente insicura che però ogni tanto cerca di sfidarla pure la vita, un passo alla volta, facendo anche cose belle. Parlare attraverso i libri o essere consigliere di un’associazione lgbt, sono due di questi passi.

D. Lou in qualche modo trova la sua dimensione e trova anche una certa serenità. Anche per questo voglio chiederti: sei felice? Sei soddisfatto della tua vita?
R. Stavolta non ti so rispondere. Non lo so se sono felice. Questo che sta finendo, per me, è stato un anno di perdite importanti, sconfitte dure ma anche di conquiste concrete. Ma non sono soddisfatto. Io non lo sono mai. Eppure ho i libri e la scrittura che mi salvano sempre.

D. Perché non sei mai soddisfatto?
R. Perché sono un sognatore. E i sognatori idealizzano troppo. E l’idealizzazione nuoce gravemente alla felicità. Ce lo diceva anche Gore Vidal in ‘Statua di Sale’.

D. Che cosa credi ti manchi per essere felice?
R. Un lavoro redditizio, una casa, un amore. Eppure un caro amico, Simone Di Giacomoantonio, nel suo film ‘My Nature’ dice una cosa di questo tipo: “Mi sono sempre detto che sarei stato felice solo il giorno in cui avrei incontrato la donna della mia vita, avrei avuto la macchina della mia vita e abitato nella casa della mia vita. Poi però mi sono accorto che non era quello che volevo realmente e  che la mia vita la stavo già vivendo”.
Bello no?
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D. Per terminare voglio tornare al romanzo. Da scrittore con attivo già tre pubblicazioni e un’altra in uscita a Marzo, che valore assume nella tua vita Storia di Lou?
R. Lou segna l’inizio e la fine di un periodo della mia esistenza colmo di nuove consapevolezze. E quando capisci delle cose nuove, è sempre un bene, anche se questo comporta delle perdite: luoghi, amori, amici. Lou sono anche un po’ io, con quella grinta che forse in passato un po’ mi mancava.

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