Week end monotematico: Luigi Romolo Carrino - L'intervista

E con l'intervista di oggi si conclude questo week end monotematico dedicato a Luigi Romolo Carrino. Quella che segue è un'intervista a 360° in cui lo scrittore partenopeo parlerà del suo ultimo libro Il pallonaro e di molto altro ancora. Quindi non perdete nemmeno una parola e godetevela.

Le interviste
  Luigi Romolo Carrino
   Esclusiva
Nella foto: Luiigi Romolo Carrino

Luigi, sei tornato con il romanzo Il pallonaro che affronta il tema dell’omosessualità all’interno  del calcio. Cosa ti ha spinto ad affrontare questo tema? 
Dove c’è una pentola che bolle mi viene sempre di scoperchiarla. Il mondo ipocritica del calcio – da tifoso del Napoli – mi infastidisce. L’idea m’è venuta nel luglio del 2007, a una cena con amici romani, dove feci la conoscenza di un calciatore che tuttora milita in serie B. Venne a cena con il suo compagno, in tutta tranquillità, tra persone fidate. Da quella cena, io e il trequartista di serie B ci siamo rivisti un po’ di volte. Affetto da pruderie gossipara, nel corso della nostra frequentazione lo bombardai di domande per conoscere nomi e per farmi raccontare situazioni, inciuci. Allora stavo per pubblicare Acqua Storta e non volevo insistere troppo sul tema omosessualità. Sono uno scrittore, prima di tutto, quanto meno provo a esserlo. Non mi piace che si confonda il testo con chi lo scrive, non mi piace che il personaggio scrittore sovrasti eventualmente quello che scrive. Per questo, ho affrontato l’argomento anni dopo da quelle conoscenze.



Nel romanzo quello che viene fuori è il disagio dei giocatori, soprattutto quelli di seria A, a dover nascondere la propria natura pur di non rovinare gli equilibri di facciata che questo ambiente porta avanti quasi in maniera maniacale. Secondo te, questa battaglia della negazione da cosa è alimentata oltre che da motivi economici? 
Quando chiesi al trequartista “Perché un calciatore non può dichiarare di essere omosessuale?”, la sua risposta fu più o meno questa: “Ogni domenica migliaia, milioni di persone, vivono la loro realtà fatta di lavoro, di figli da portare a scuola e di stipendio da farsi bastare, di anziani genitori da accudire. Ognuno di loro chiede a noi di essere il vincente che non sarà mai. Noi siamo il sogno che riscatta la loro realtà. E il sogno, come il denaro che arriva dagli sponsor, è maschio. Non possiamo spezzarlo”.  Ma questa, forse, è soltanto la sua idea. I tifosi, dopo un po’, si abituano. Hai voglia di urlare dagli spalti “ricchione!”. Alla fine, il tutto si ridurrebbe a qualche battuta a livelli di “arbitro cornuto”.

Da poco più di un anno a Napoli è stata formata la Pochos, la prima squadra di calcio composta totalmente da giocatori omosessuali, che ha suscitato accese polemiche sia fra l’ambiente eterosessuale che fra quello omosessuale. Nel primo ambiente perché si ritiene impensabile che lo sport più macho del mondo venga giocato dai femminelli, in quello gay, invece, perché questa viene visto come un tentativo di rendere machisti i gay. Dal tuo punto di vista, perché quando si mettono insieme le parole calcio e omosessualità, la polemica è sempre dietro alla porta?
Che sciocchezza la squadra di calcio gay! E che sciocchezza l’idea machista sulle professioni che si possono o non possono fare in relazione all’orientamento sessuale! Comunque, per rispondere alla domanda: il mondo è maschio da millenni. Come il potere. Che sia su una poltrona in cucina o in Parlamento. Il calcio da noi è molto popolare, è una macchina del consenso. Influenza usi e costumi, gusti, consuetudini e pensiero di un intero popolo. Questa è la semplice e immediata verità: essere omosessuali lede – nell’immaginario collettivo – la dignità maschia della virilità. Ce ne vuole per cambiare questa idea! Men che meno, servono squadre gay di… calcio, basket, di bob a 4 o di carling!

Tornando al tuo romanzo, uno degli aspetti che mi ha colpito è stato sicuramente il rapporto di Diego e il padre. Quest’ultimo è un uomo di altri tempi, non abituato a dire ciò che prova e che reagisce in malo modo quando scopre dell’omosessualità del figlio. Lì per lì uno può pensare: ecco il solito padre –padrone che rinnega suo figlio, fino al giorno prima il suo orgoglio, per il fatto che è gay, ma alla fine il suo atteggiamento non è di chiusura, ma di rimorso per non esser riuscito a capire il figlio e non avergli permesso di aprirsi con lui. Perché, secondo te, a volte fra un figlio, gay in questo caso, e un genitore non è semplice aprirsi, parlarsi?
C’è anche un altro atteggiamento, quello del padre dell’altro calciatore, di Stefano, che vive l’omosessualità del figlio come una parte della sua personalità. Come dovrebbe essere. Soprattutto in questo ultimo decennio, a fronte di un genitore con il quale non è facile aprirsi ce n’è uno invece con cui si può parlare liberamente, che sia della propria sessualità o del modo in cui vive tra i suoi coetanei. Un genitore non è un amico, o almeno nella mia idea non dovrebbe esserlo. È quello che ti insegna come fare i primi passi nel mondo, e tiene le sue braccia intorno al tuo corpo per non farti sbattere o cadere. Il genitore che riesce a fare questo, senza stritolarti ma lasciandoti appunto camminare, imparare a camminare, molto probabilmente è il genitore perfetto. Essere autorevole ma non autoritario. Imporre i limiti quando serve ma non castrare. Non è un caso che i genitori omosessuali ‘pare’ riescano meglio nel loro mestiere di padri o di madri, forse perché hanno sperimentato cosa vuol dire essere rifiutato dal contesto per qualcosa che è naturale, come essere omosessuali.

Una domanda che è nata durante la lettura è: ma quanti cartoni animati conosce? Nel libro fai diversi richiami a Holly e Benji, Mila e Shiro, Ken il guerriero, e ogni volta che li leggevo, ricordavo i miei pomeriggi davanti alla tv a guardare Bim Bum Bam. Non dirmi che anche tu sei uno di quelli che è cresciuto con Paolino (Bonolis) e Uan?
Non me ne parlare! Ancora oggi mi guardo le puntate di Mazinga, di Mila e Shiro, di Ken il Guerriero, di Jenny la tennista (e mi fermo qua: è imbarazzante). A quasi 46 anni ogni tanto cerco su YouTube una  puntata specifica dell’incantevole Creamy, senza contare che conosco a memoria tutte le battute di tutti gli episodi di Jeeg. Ricoveratemi!

Se ti può consolare, anche io guardo ancora i cartoni animati che hai citato. Pensa, ancora oggi, mi emoziono durante l’ultima puntata di Magica Emy nel momento in cui Mai capisce che Moko se n’è andato e piange.
Torniamo, però, all'intervista che forse è meglio.
Una delle critiche che mi rivolgono è quella che nei miei lavori parlo sempre di omosessualità e di limitarmi solo a un certo target. Ora, premettendo che in confronto a te io sono ancora un lattante, se ti venisse fatta la domanda: perché non scrivi una storia d’amore fra un uomo e una donna per rivolgerti a un pubblico più eterogeneo, che cosa risponderesti?
Ho scritto di camorristi gay, vero, e Il Pallonaro parla – anche – di omosessualità oltre che di calcio. Poi ho scritto di disagio mentale, di ospedali pischiatrici giudiziari, ho scritto del rapporto tra madre e figlio, tra padre e figlio, di neomelodici, di un bambino indaco, e nei racconti di Istruzioni per un addio si parla anche di rapporti d’amore tra un uomo e una donna. La limitazione non è mia, semmai di un certo lettore che si aspetta da me le stesse storie. Di questo non posso e non voglio preoccuparmi: sono uno scrittore, e questo è quanto io possa dire.

Con Il pallonaro, hai scelto di tornare pubblicando solo in ebook. Ancora sono in molti i diffidenti verso questa nuova evoluzione digitale del libro. Se dovessi convincere un lettore a leggere un ebook, che cosa gli diresti?
Non ho scelto io liberamente. Il romanzo è stato apprezzato da tutti gli editor che l’hanno letto. Ma nessuno se l’è sentita di pubblicarlo. Dopo aver fatto questo giro editoriale, la goWare mi ha convinto a provare anche questa soluzione digitale.
Leggere in ebook è solo questione di abitudine. Paradossalmente si dovrebbe convincere il lettore forte che preferisce guardare i testi nella sua libreria cartacea piuttosto che stiparli su un e-reader. Per una questione economica e per i nativi digitali non credo ci sia bisogno di spendere parole per convincerli al passaggio. Semmai, le parole andrebbero spese per invogliarli alla lettura, digitale o cartacea poco importa.
Intervista: Francesco Sansone


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