INTERVISTA - Lukas Arche: «Quando all’idea di “normalità” verrà preferito il principio della libertà, ci saranno solo scelte libere»
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Intervista di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
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Intervista di Francesco Sansone
Grafica di Giovanni Trapani
Ieri vi abbiamo parlato di 'La prima estate' e oggi abbiamo il piacere di continuare a parlarne attraverso le parole di Lukas Arche, che ha scritto il romanzo assieme alla collega Silvia. Un libro indipendente che ha saputo mescolare gli elementi del genere di formazione alla pura narrativa, affrontando temi e situazioni con la giusta delicatezza.
D. ‘L’ultima estate’ è un romanzo a metà
fra il genere di formazione e quello puramente narrativo. Come nasce l’idea del
romanzo e la scelta di mescolare questi due generi?
R. Il romanzo di formazione ci ha dato
la possibilità di seguire l'evoluzione del personaggio e ci dà notevoli spunti
su cui costruire la trama. La storia del protagonista non è solo la presa di
coscienza della propria sessualità, ma anche l’affermazione di sé a livello
sociale ed economico. È "La prima
estate" in cui conosce veramente se stesso. È il genere narrativo che
personalmente sento più vicino e in cui mi muovo meglio.
D. La storia offre diversi spunti di
riflessione a partire dal rapporto complicato fra i due protagonisti che,
sebbene in lingua diversa, hanno lo stesso nome. Quando avete pensato a loro,
vi sei ispirati a qualcosa o a qualcuno in particolare?
R. L’uso dello stesso nome in lingua
diversa, ha un preciso significato all’interno della storia legato alla vicenda
che unisce i due personaggi. Sono entrambi la versione altra del figlio
perfetto, del figlio ideale che i genitori non sono riusciti ad avere ma a cui
aspiravano e i due personaggi si portano nel nome e nel loro modo di essere
questa imperfezione come una colpa. Il nome che li unisce è l’ideale a cui
entrambi tendono, rinnegando se stessi. Affermano il loro amore rifiutando di
essere il figlio sognato dai loro genitori. Non posso ignorare di aver scelto
il mio pseudonimo identico al nome del protagonista perché in qualche modo
questa storia lega anche me a loro: questa storia risente della vita mia e di
Silvia, dei luoghi in cui viviamo, delle nostre esperienze, della nostra
fortissima volontà di affermare la nostra natura imperfetta.
D. Nel romanzo affronti anche il tema del
bullismo omofobo che termina con il tentato suicidio della vittima. Un tema
sempre molto attuale e che colpisce ogni volta per come le dinamiche si
ripetano seppur i volti di chi compie le violenze cambino. Credi sarà mai
possibile arrivare a vivere in una società capace di considerare “normale le
diverse sessualità umane”?
R. No, perché è proprio il concetto di
“normalità” a essere sbagliato. Finché ci sarà qualcuno che pretende di
imporre ad un’altra persona, vicinissima a lui come un padre a un figlio, un
compagno di classe ad un alto, un amico ad un amico, la propria idea di “normalità” allora qualsiasi tipo di
sessualità sarà considerata sbagliata.
Quando all’idea
di “normalità”, che credo sia un
concetto che cambia in base ai diversi periodi storici in cui viene adottato,
verrà preferito il principio della libertà, allora non ci saranno più scelte
giuste o sbagliate, ma solo scelte private e libere.
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D. Sempre restando sul tema, nel romanzo si
vede che il bullo alla fine si rende conto di essere gay. Questo è stato il vostro
modo di dire che dietro a un omofobo c’è un gay che non riesce ad accettarsi e
ad accettare che gli altri possano stare bene con la propria omosessualità?
R. Credo che prima di tutto dietro ad
un omofobo ci sia una persona che ha paura. Paura del diverso, di se stesso,
paura di non riuscire a rientrare in quell’idea di normalità di cui parlavamo
prima. Sono convinto che l’omofobo
focalizzi la sua rabbia su qualcosa che non conosce e lo spaventa, a volte
questa cosa coincide con un se stesso che non riconosce.
D. La scrittura è semplice, anche i temi
più importanti non vengono affrontati con morbosità descrittiva. Si tratta di
una scelta atta a mostrare certi aspetti con la leggerezza del romanzo
narrativo al fine di farli arrivare ai più senza la drammaticità del
significante?
R. La scrittura a cui aspiriamo io e
Silvia ha uno stile semplice e asciutto anche se amiamo inserire figure più
poetiche all'interno di strutture più lineari. Questa semplicità in realtà non
ci facilita il lavoro: passiamo tantissimo tempo a "pulire" i nostri
testi, a scegliere ogni singola semplice parola e a curare le descrizioni in
modo da avvicinare il lettore non solo alle sensazioni del personaggio ma anche
ai luoghi che ci piace raccontare, la Toscana in cui entrambi viviamo. Non
amiamo drammaticità che rallentano la narrazione.
D. Quando avete scritto il romanzo a quale
pubblico pensavate di rivolgervi?
R. Entrambi volevamo avere un pubblico
appartenente alla comunità LGBT,
e non solo lettori di romanzi mm. Speravamo che la storia arrivasse ai più
giovani, perché i nostri protagonisti lo sono, ma anche a un pubblico più
adulto che potesse riconoscere nei personaggi i propri
figli, ma anche se stesso. A un certo punto però ci siamo lasciati andare solo
al piacere di scrivere una storia d'amore e questo piacere pensiamo si rifletta
nel nostro racconto.
D. Per concludere cosa ti ha lasciato
questa esperienza di scrittura?
R. Inizialmente tanta fatica. Il nostro
nome, era sconosciuto e affermarsi come self è stato veramente difficile senza
una casa editrice che garantisse per noi. Ma entrambi abbiamo avuto esperienze
nell’editoria e abbiamo cercato di trattare il nostro libro nel modo più
professionale possibile. La scelta di avere uno pseudonimo e pubblicare self è
stata una scelta di libertà che abbiamo voluto entrambi fortemente.
Ora solo stupore.
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