Maurizio Semplice: «L'Italia di Sauro era ancora giovane e c'era poco da perdere perché lo si era già perso»

 


“Memorie di un Brontosauro. Racconti, amori e imprese di un restauratore di pianoforti in un secolo di storia d’Italiaè il nuovo libro di Maurizio Semplice, pubblicato da Fefè editore.


Attraverso uno stile leggero, con un pizzico di ironia, l’autore ricostruisce la storia di Sauro, il Brontosauro appunto. Ovviamente il termine non allude alla sua fisicità, quanto alla sua entità di personaggio storico: di uomo, di italiano-tipo, che ha attraversato settant’anni di ’900 e vent’anni di 2000. Quell'italiano-tipo che non c'è più, ma che sopravvive nella memoria di chi lo è stato e può ancora raccontarlo. Quell’italiano-tipo  che è archeologia sociale e antropologica, ma che però può insegnarci ancora molto.


L'intervista 

 

D. Il libro racconta la storia di Sauro, attraverso il quale racconti un’Italia lontana come gli italiani che l’abitavano e che si stanno “estinguendo”. Hai detto che questo libro nasce dall’incontro casuale con Sauro. Cosa ti ha spinto a conoscere a fondo la sua storia e poi a raccontarla?

R. Per natura sono curioso. Credo più o meno come tutti. Ma ho una passione per le cose apparentemente dimenticate o inutili. In particolare per le storie lontane che non mi appartengono affatto e che finiscono -proprio per la loro apparente inutilità- per essere un ottimo veicolo di fantasia. Per questo mi sono dapprima incuriosito, poi appassionato, ai racconti di questo anziano signore, conosciuto quasi per caso, realizzando che avevo incrociato una specie di testimone del suo tempo, un esemplare di quella specie estinta i cui tipi venivano chiamati in greco antico “logopoioi”, più o meno “fabbricatori di racconti”, onesti e operosi operai a cui dobbiamo alcune delle molteplicità delle forme del narrare.

Ho iniziato così a pensare di raccontare una vita qualunque vissuta in maniera particolare (o una vita particolare vissuta in maniera qualunque) che avesse come sfondo la storia del nostro Paese che, proprio negli anni vissuti dal nostro protagonista, aveva iniziato a cambiare in maniera vorticosa. Un racconto che avesse il sapore della testimonianza, della memoria, attraverso parole lontane e sognate, in modo che “l’altro, nell’altro tempo” divenisse, per qualche incomprensibile motivo, vicino e possibile.

Ho avuto così il privilegio di poter scrutare nella vita di qualcuno. Di qualcuno che rappresenta una generazione particolare. Una generazione che -nel bene e nel male- aveva fatto molto e che forse, senza retorica, avrebbe ancora qualcosa da insegnare, mentre, in questi tempi convulsi, se ne va in silenzio tra l’indifferenza generale.

 

 

D. Quale episodio ti ha colpito maggiormente dei racconti di Sauro e perché?

R. Due in particolare. Sauro che a dodici anni, il 10 settembre del ’43, va a Porta San Paolo - dove si consumava l’estremo disperato tentativo da parte dei militari e civili di opporsi all’occupazione tedesca della capitale avviata subito dopo l’annuncio dell’armistizio – per portare “eroicamente” della pasta, preparata dalla madre preoccupata che i militi stessero combattendo a pancia vuota, a quello che sarebbe divenuto il suo futuro cognato, che stava appunto combattendo lì, chiuso in un piccolo mezzo blindato.

E un altro quando Sauro in Africa accetta come subacqueo di partecipare al recupero di un relitto affondato. Un evento impossibile reso possibile solo dalla meravigliosa ampiezza dell’incoscienza e dalla frenesia di bruciare tutte le tappe del tempo, cogliendone in continuazione l’attimo. Qualsiasi cosa esso contenesse.

 

 

D. Che idea ti sei fatto di quell’Italia e di quegli italiani?

R. Era un’Italia ancora giovane come nazione, impulsiva, analfabeta e familista, rassegnata e fatalista, bigotta e superstiziosa, dove c’era poco da perdere perché lo si era già perso. Una Italia traumatizzata da due guerre mondiali con in mezzo un grottesco ventennio di dittatura. Sfido chiunque oggi, specie chi parla in maniera indignata di limitazione della libertà per le restrizioni(dovute al Covid) dell’orario per l’aperitivo o per l’accesso alla discoteca o al centro commerciale, a immaginare lontanamente cosa dovesse significare vivere in quei tempi. E quegli italiani in mezzo a tutto quel casino, si rimboccarono le maniche e iniziarono a immaginare, a progettare, a ricostruire. Anche sbagliando certo, ma andando avanti comunque, spesso a tentoni, facendo qualsiasi cosa, provandoci sempre, perché dopo quel periodo nulla li poteva più spaventare.

 

 

D. Cosa è rimasto di quel periodo nella società odierna?

R. Credo molto poco. Ma è una cosa del tutto naturale. Le cose cambiano ed evolvono. Ora viviamo in una società bulimica e opulenta, che ha da tempo sposato il copione dell’emotività per rispondere a tutte le sollecitazioni del mercato e delle suggestioni della politica (trasformata in prodotto di mercato anch’essa) e che ha fatto di tutto per dimenticare le proprie origini. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ne parlava già Pasolini in un famoso articolo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1973, quando denunciò quello che definì come il nuovo totalitarismo dato dall’avvento della società dei consumi, da lui descritto come molto peggiore rispetto al precedente totalitarismo fascista. Per Pasolini tale diffusione del consumismo – determinato dal cambiamento nei modi di produzione conseguente al boom economico – aveva causato una mutazione antropologica negli italiani, la quale è un fenomeno di omologazione culturale totale e di conseguente genocidio culturale. E i risultati li vediamo tutti i giorni, basta accendere la televisione, o fare un giro per i cosiddetti social per esempio…


D. Quanto è importante per te tramandare la storia e ciò che siamo stati?

R. Per me è essenziale, ma mi rendo conto che è una considerazione che rischia di essere totalmente inattuale. Comprendere le proprie radici, il comune passato, la nostra storia e origine, aiuta a capire sé stessi nel presente, come ci si è arrivati e chi si è veramente. In definitiva ascoltarsi. Naturalmente è una operazione che rischia di essere scomoda per chi ha rimosso quelle che crede essere le proprie scomode radici. La memoria è in definitiva fondamentale per capire ciò che sta accadendo in questo momento. La memoria aiuta a migliorarci (dovrebbe) e a non farci ripetere gli stessi errori (dovrebbe).

 

D. A tuo avviso l’essere umano è in grado di imparare dal passato o preferisce far finta che non esista, rischiando di perpetrare gli stessi errori?

R. Penso di sì, ma bisogna vigilare in continuazione per far si che questo accada. Purtroppo chi è più sensibile a farlo si sta estinguendo anch’egli, oppure è attaccato da più parti come fosse un patetico pusillanime. L’uomo con il passare del tempo si è in definitiva trasformato in un aggressivo animale domestico che difende in continuazione il proprio territorio (materiale o immateriale che sia). Un animale che vive un eterno presente avendo memoria solo di ciò che gli interessa per procurarsi quello che crede essere stabilità e piacere (da sapiens a consumens). Un animale in possesso quindi di una memoria a brevissimo termine, epurata da alcune complessità. Nello stesso tempo gli errori del passato si continuano a presentare sotto altre forme. Il meccanismo è lo stesso ma cambiano le forme.

E il naufragar diventa prassi in questo mar…

 

D. Tu racconti la società attraverso varie forme artistiche. La fotografia, infatti, è un’altra delle tue attività. C’è differenza tra la narrazione per immagini e scritta?

R. Sì. Da tempo considero varie tecniche di espressione (fotografia, illustrazioni, arte concettuale) come una continuazione e un completamento della scrittura. Nel mio caso ho sempre considerato la fotografia come un serbatoio di immagini per un percorso narrativo. Ma si potrebbe dire anche il contrario; le immagini si portano dentro un serbatoio di parole e il potenziale dell’immaginazione di storie da esplorare e raccontare.

 

D. Nel leggere "Memorie di un brontosauro", correggimi se sbaglio, non si può non riscontrare nella scrittura un velato, ma non troppo, umorismo. Questo stile dinamico, leggero, quanto è importante per raccontare la realtà?

R. Direi essenziale per mettere insieme un romanzo biografico di questo tipo. Il tratto umoristico è poi per me una chiave che uso spesso per riuscire a parlare di cose gravi rendendole leggere,cercando di non fargli perdere l’importanza.

A tal proposito mi viene sempre in mente la lezione di Calvino sulla Leggerezza “la leggerezza significa il contrario della frivolezza, è amica dell’intelligenza, della competenza, della bellezza”. La leggerezza in definitiva è necessaria per guardare il mondo da un’altra ottica, con un'altra logica e altri metodi di conoscenza.